Mi
chiamo Daniele Grazi, i fatti che vado a raccontarvi risalgono all’inverno
del 1977, quando ero ancora indeciso fra il ragazzo e l’uomo.
Quella sera ero alla guida del mio Maggiolino rosso e nevicava, nevicava,
Dio quanto nevicava.
“Accidenti con tutta questa neve la mia vecchia carretta, con la
sua stupida trazione posteriore, sbanda in continuazione e come se non
bastasse i vetri si sono completamente appannati, non vedo quasi niente;
che incubo guidare in queste condizioni".
Improvvisamente dopo l’ennesima sbandata intravidi delle case.
“Toh, un paese? Non me lo ricordavo, vediamo come si chiama …,
niente il cartello è coperto dalla neve”.
Procedevo lentamente in quella che doveva essere la via principale di
quell’inatteso paesino, quando una fioca luce attirò la mia
attenzione.
Era l’insegna di un locale, “Osteria della …, accidenti
anche qui la neve non mi lascia leggere il nome”.
Pazienza, l’importante era l’aver trovato un riparo da tutta
quella neve.
Entrai nel locale affollato d’avventori, ma stranamente silenzioso.
Mi accostai al bancone e mi rivolsi all’oste.
“Scusi, ma come si chiama questo paese? Non l’avevo mai notato!”.
L’uomo bofonchiò alcune parole incomprensibili, poi, con
fare non molto cortese, mi apostrofò.
“Ragazzo, non ho tempo da perdere, vuoi ordinare qualcosa?”.
Pur risentito dai modi del banconiere, ordinai un latte macchiato caldo,
quindi, con il bicchiere in mano, scrutai il locale alla ricerca di un
posto libero ove sedermi.
Fu a quel punto che il mio sguardo incrociò quello di un vecchio,
che solo, a un tavolo poco discosto dal bancone, mi elargiva un gran sorriso
sdentato, e affabile mi invitava a sedermi accanto a lui.
“Non te la prendere con l’oste giovanotto! In questi giorni,
che la neve confonde il cielo con la terra, buona parte degli abitanti
di questo paese, viene pervasa da una inconfessata angoscia”.
Rimasi stupito dall’esprimersi quasi raffinato del mio ospite e
per ricambiarne la gentilezza interloquii.
“Avete paura di rimanere isolati, magari senza corrente?”.
“No, siamo abituati alla rudezza di queste montagne. La nostra angoscia,
meglio, la nostra paura deriva dal …”.
L’uomo s’interruppe, mi osservò per alcuni secondi,
poi riprese.
“Quello che sto per dirti è quasi un segreto, qualcosa che
noi del paese non raccontiamo a nessuno, anche perché nessuno ci
prenderebbe sul serio e poi perché, perché ne abbiamo pudore,
quasi vergogna. Ma con te ragazzo è diverso, qualcosa mi dice che
ti devo raccontare di lei”.
Sgranai gli occhi, chiedendogli: “Di lei?”.
Il vecchio rispose: “Diciamo di loro, diciamo dei lupi”.
“Lupi? Ma ce ne sono in queste valli?”.
“Ragazzo, ti posso assicurare che questo villaggio fu letteralmente
stretto d’assedio da un branco di lupi, ma lascia che ti racconti
dall’inizio”.
Guardai l’uomo seduto davanti a me, tutto sommato sembrava sobrio,
non sembrava neanche volesse prendermi in giro. Devo ammettere che ero
anche incuriosito e strano, turbato.
Il vecchio iniziò a raccontare.
All’epoca ero un ragazzo, la grande guerra era appena terminata.
Nel nostro villaggio di quel catastrofico conflitto si erano accorte sole
le mamme e le mogli che non avevano visto i loro uomini far ritorno a
casa.
Io, come quasi tutti i ragazzini maschi del paese, non amavo andare a
scuola, non che la maestra non fosse brava, ma tutte quelle tabelline,
quei dettati, non ci andavano proprio giù, noi volevamo correre
nei prati, far scappare i gatti e gettare i rospi fra le gambe delle bambine
che urlavano terrorizzate.
Ma rimasi molto dispiaciuto quando seppi che alla mia vecchia maestra,
in una delle sue solitarie passeggiate nel bosco, era successo qualcosa
di brutto che la portò via dai suoi libri, dagli scappellotti che
bonariamente ci tirava nel tentativo di raccogliere la nostra attenzione.
Cosa veramente le successe non si è mai saputo, ma il suo corpo
privo di vita venne ritrovato a un paio di chilometri dal paese. Non c’era
nessuna ragione apparente che spiegasse la sua morte, solo i suoi occhi,
dilatati come un lago colmo di spavento, sembravano raccontare della grande
paura che negli ultimi momenti della sua vita aveva dovuto soffrire.
“Ora tu, ragazzo, mi chiederai: paura di cosa?”.
A dire il vero non avevo fatto molto caso al particolare degli occhi,
ma per gentilezza annuii.
Quello che a tutti piaceva pensare è che la povera donna, resasi
conto dell’imminenza della sua fine, una gran paura aveva avuto.
Quello a cui invece nessuno voleva pensare, era che in realtà ella
avesse visto qualcosa di così terrificante che il suo cuore aveva
smesso di battere.
Fu così che arrivò una nuova maestra, una nuova maestra
giovane e graziosa. Così, stare seduto dietro al banco non mi era
più sembrato tanto noioso.
E proprio durante una lezione, presi dal nero corvino dei capelli della
nostra maestrina e dalla sua spiegazione sulla vita degli animali che
popolavano le nostre montagne, che venni, anzi venimmo attirati da un
gran vociare proveniente dalla strada. Ci lanciammo curiosi alle finestre
e vedemmo Samuele, il falegname che viveva al limitare del paese, tirare
un carretto nel quale giaceva esangue, orrendamente imbrattato di sangue,
il suo magnifico e amato cane, un enorme Pastore Maremmano.
Non si capiva bene cosa dicesse l’uomo. Si agitava, urlava, imprecava,
credo volesse anche piangere; ma capii benissimo cosa mormorò con
la bocca chiusa la mia maestra: lupi!
Da quel giorno la vita di tutti noi paesani cambiò!
Non ci furono più uccisioni, ma altri cani scomparvero. Stranamente
il bestiame non venne toccato.
A noi bambini fu fatto divieto assoluto di giocare fuori dal paese. I
pochi cani rimasti furono chiusi nelle case e gli uomini si decisero a
organizzare una battuta esplorativa nei pascoli e boschi circostanti il
paese.
Essendo solo dei poveri contadini e allevatori, nessuno di loro aveva
un fucile, ma solo asce e forconi. Chissà? Forse furono le preghiere
delle donne rimaste nelle case, forse le preghiere inconfessate degli
stessi uomini, che nessun lupo, fortunatamente aggiungo io, fu trovato.
Di tracce sì, di quelle ce n’erano in abbondanza. Si capiva
anche che alla loro guida c’era un lupo veramente enorme.
Ma fu un mattino di fine ottobre che la paura sfondò definitivamente
gli argini della ragione. Fu Battista, un povero uomo che viveva solo
con la vecchia madre e la mattina si alzava prima di tutti per raccogliere
un po’ di legna, che ci svegliò urlando.
“Li ho visti, li ho visti, i lupi, i lupi sono qui, appena fuori
dal paese!”.
Interrogato da alcuni uomini che subito accorsero, capimmo che in realtà
aveva visto un solo lupo, un esemplare enorme diceva lui, che l’aveva
minacciato dall’alto di un masso.
Non era ancora finito l’eco dell’avvistamento del povero Batista
che da alcune case giunse uno strano mormorio, come una specie di cantilena,
una preghiera, che rapidamente mutò in un latrare sempre più
penetrante. Tutti i cani rimasti, chiusi nelle case, sembravano impazziti
per la paura, qualcuno riuscì a scappare nel bosco, qualcuno lo
si dovette abbattere, aveva addirittura cercato di mordere i suoi padroni.
Era troppo, tutto ciò era troppo per noi umili e semplici paesani.
Bisognava fare qualcosa, bisognava assoldare un vero cacciatore. Ma come?
Anche nei paesi vicini non ce n’erano! Si, qualcuno andava a caccia
di fagiani, di lepri, ma un lupo, Dio, un lupo era ben altra cosa. In
città bisognava scendere, solo lì sarebbe stato possibile
trovare un vero cacciatore.
Due giorni dopo, il sindaco, accompagnato dalla giovane maestra, partì
alla volta della città. Qualcuno criticò la scelta della
maestra, perdiana, era una donna! Ma la giovane insegnante aveva fatto
garbatamente notare che se ci fosse stato bisogno di fare di conto o scrivere
qualcosa, l’unica persona in grado di farlo bene sarebbe stata proprio
lei.
Solo che le cose si rivelarono più difficili del previsto. Di cacciatori,
già in quel tempo, ne erano rimasti ben pochi e quei pochi, sentito
cosa li aspettava, rifiutavano con fermezza ogni coinvolgimento. Il sindaco
e la maestra erano ormai in procinto di rientrare fra le loro montagne
senza il sospirato salvatore, che un giovane uomo, dai capelli e la barba
lunghi, li avvicino e si qualificò come un esperto cacciatore proveniente
dall’Africa. Raccontò che in quelle lontane terre aveva,
fra le altre, dato la caccia ad una fiera così spaventevole cui
gli indigeni non avevano neanche dato un nome.
Così l’uomo fu assoldato anche se il sindaco, ma, strano,
anche la maestra, si erano mostrati un po’ precipitosi: Il cacciatore
aveva poi ucciso quella tremenda belva? E se era così bravo, che
ci veniva a fare in un paesino sperduto fra le montagne? Ma probabilmente
la gioia le domande spazza via e, ritornati al villaggio, il giovane uomo
fu festeggiato da tutti i paesani e acclamato come il novello liberatore.
All’epoca, nonostante poco più che bimbo e sicuramente discolo,
ero un gran lettore di romanzi di avventura, di grandi cacce, e devo dire
che il nostro uomo del cacciatore aveva ben poco. Quello che più
mi colpiva era la sua scarsa simpatia per il fucile; si dimenticava spesso
di portarselo dietro anche quando andava in esplorazione nel bosco. Ebbi
anche la sensazione che fosse più interessato alla nostra maestrina
che ad andare a caccia di lupi.
Nonostante queste stranezze io stravedevo per lui e ogni volta che potevo
lo seguivo, anche nel bosco. Non mi parlava mai, ma lui non parlava con
nessuno. A volte sembrava non accorgersi neanche della mia presenza. Altre
volte, invece, sembrava contento che lo seguissi come un’ ombra,
un’ombra silenziosa. Mi lanciava un fuggevole sorriso e io mi scioglievo
di felicità.
Per quanto lo seguissi, però, non capivo cosa realmente cercasse.
C’imbattevamo spesso nelle tracce dei lupi, ed egli sì le
seguiva, ma sembrava che in realtà da quelle orme volesse risalire
a qualcos’altro. Aveva paura, ma non dei lupi, o almeno, non solo
dei lupi.
Non ci volle molto tempo agli altri abitanti del paese di smettere di
condividere la mia ammirazione per il cacciatore, anzi in molti s’erano
convinti che quell’uomo non li avrebbe mai liberati dai lupi, molti
ormai pensavano che fosse solo interessato alle grazie della giovane maestra.
Sì è vero, quel mio strano amico, quando non era nei boschi,
rimaneva lungamente seduto davanti alla scuola aspettando che al termine
delle lezioni l’insegnante uscisse attorniata da frotte di ragazzini.
Quasi sempre si limitava a guardarla, ma qualche volta le si avvicinava
e le mormorava frasi sommesse.
Non ho mai sentito cosa le dicesse, ma la mia maestra, sempre pronta a
respingere ogni minima avance, lieve girava lo sguardo verso lui e senza
nulla dirsi si accompagnavano sino a l’uscio della di lei dimora.
Sì è vero, il cacciatore dedicava molto del suo tempo alla
mia maestrina, ma mai il suo ardire andò oltre il silenzio del
loro passeggiare e, mai, varcò la soglia di quella casa.
Un giorno, poi un giorno, infine un giorno, il tempo si fermò!
Dio, ricordo ancora ogni distinto secondo di quei momenti.
Nel cielo non c’erano voli di uccelli, nell’aria non c’erano
canti di bosco, neanche ronzii di mosche. Ad un tratto, improvviso, il
vento si alzò inseguito da una folla di ululati, che sinistri risalirono
per le vie del paese sino al centro della nostra paura.
Tutti implorarono il cacciatore d’intervenire, di terminare quella
follia. Ma quell’uomo, ancora una volta, non fece quello che ci
si aspettava da lui.
Il fucile questa volta lo prese e - certo si capiva - non per fare una
passeggiata, ma non andò incontro ai lupi, bensì a passo
deciso si diresse verso l’abitazione della maestra. Bussò,
a lungo ribussò, fino a quando, convintosi che nessuno gli avrebbe
aperto, inizio a correre, a correre verso i lupi.
Tutti cercammo di seguirlo, ma quando giungemmo ai margini del paese di
lui e dei lupi non c’era traccia alcuna.
Da quel giorno nessuno lo vide più. Anche i lupi scomparvero e
quel che è ancora più misterioso, anche la mia maestrina
era scomparsa. A lungo venne cercata, arrivarono anche i carabinieri,
ma della donna non venne trovata traccia, era come se si fosse dissolta
nel niente.
Il vecchio si zittì, il suo sguardo era vuoto, il mio umore invece
era denso di strani pensieri, che comunque scacciai frettolosamente.
“Nonno mi hai raccontato una favola, è chiaro che il grande
lupo era in realtà la maestrina e che il cacciatore l’aveva
capito, ma è proprio solo una favola per bambini”.
“Credi ragazzo? Eppure appena ti ho visto ho rivisto il cacciatore,
l’ho rivisto in fondo ai tuoi occhi”.
Era troppo, era chiaro, il paesano si era preso gioco del cittadino fesso
persosi fra le montagne.
Uscii dal locale sbattendo la porta, salii sul Maggiolino sempre più
seppellito dalla neve che inesorabile non smetteva di cadere.
Ero nervoso, inquieto, irritato, non ero più attento, sbandavo
ad ogni curva, i miei sensi erano ottenebrati.
E così accadde, l’ineluttabile accadde; forse fu un’ombra
che sembrò attraversarmi la strada, forse fu solo la mia imperizia,
ma persi il controllo della macchina che sbandò e ruoto su stessa,
catapultandomi sotto una montagnola di neve. Il cuore mi balzò
in gola, non capivo se mi ero fatto male, ma un senso di soffocamento
mi fece scaraventare giù dall’auto.
Ero tutto un fremito, fra paura e freddo. Cercai di calmarmi, dopotutto
non mi ero fatto niente. La macchina, certo, era inservibile, seppellita
com’era dalla neve, ma, in fondo, il paese non doveva distare più
di due o tre chilometri.
Mi accostai alla macchina, volevo prendere il mio zainetto, ma la maniglia
della vettura non avevo ancora afferrato che il silenzio, quel silenzio
sordo della neve, si fece ancora più profondo. Il cuore sembro
fermarsi nel mio petto per il terrore di ciò che non potevo neanche
nominare.
Un odore acre e intenso mi avvolse mentre un sordo brontolio rabbioso
udii dietro le mie spalle. Lentamente mi voltai, Cristo, un’eternità
sembrò passare, ma poi lo vidi, anzi, la vidi: un’enorme
lupa grigia che da non più di due metri mi guardava con i suoi
occhi obliqui tinti di giallo.
La bestia la testa inclinò leggermente a destra e, orrore, prese
a parlarmi.
“Ti aspettavo, Daniele, tu non sai da quanto tempo ti ho aspettato.
Mi hai sempre inseguita - sembrava - in realtà … scappavi.
Mi volevi, ma mi temevi, mi desideravi, ma mi detestavi. Sei sempre rimasto
sul guado, non hai mai voluto attraversarlo con me per dividere i pericoli
della ‘foresta’”.
“Il giorno in cui con il mio branco attaccai il villaggio sembrava
che niente potesse ormai dividerci, ma tu, malefico, trovasti il modo
di scomparire ancora una volta”.
“Ora però non potrai più fuggire, non potrai fuggire
neanche da te stesso, qui c’è solo il mio pianto caduto come
neve che imbianca questa montagna solitaria”.
Smise di parlare, la guardai e pensai che il tempo avrei voluto per spiegarle
la mia paura, il tempo avrei voluto per capire cosa non capivo; ma il
tempo ella, meravigliosa fiera, non mi lasciò e rapida con un balzo
mi scaraventò a terra bloccandomi fra le sue zampe, privandomi
di ogni possibile fuga e, e inesorabile interruppe il mio tempo, lasciando
sola la mia stupida anima ad evaporare fra futili ricordi e fra le sue
fauci.
Scrissi questo racconto nel 1977; già quarant’anni sono passati.
Un paio d’anni fa mi decisi a riscriverlo e, fra dubbi, indecisioni,
mancanza di tempo e, a volte voglia, oggi sono finalmente riuscito a scrivere
la parola fine.
Certo che mi viene un po’ da sorridere nel rileggere delle mie paure
poco più che adolescenziali, oggi sono un uomo e … un rumore
alle mie spalle quasi mi spaventa, accidenti, sorrido del mio ingiustificato
timore e riprendo a scrivere, ma, ma una sorta di lamento gela il mio
respiro e non posso fare a meno di considerare che forse la lupa perde
un po’ di pelo, forse agilità, ma, ma non smette mai di inseguirmi,
di inseguirci …
2 gennaio 2017
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