Mi
chiamo Daniele e ti odio padre, o meglio, ti odiavo, sei morto due anni
fa.
Quel giorno, quando il cellulare squillò non rimasi sorpreso sentendo
la voce di mio fratello Andrea, che agitato mi esortava di correre all’ospedale,
il babbo aveva avuto una crisi, forse stava morendo.
Non mi ci volle molto ad arrivare, ma quando entrai nella tua camera trovai
Andrea con gli occhi lucidi in un angolo, abbandonato su una sedia. Gli
chiesi cosa fosse successo, ma dal suo farfugliare con capii niente se
non la gravità della tua condizione. Solo allora girai il mio sguardo
verso di te, ma tu già avevi perso conoscenza. Non avevo neanche
fatto in tempo a salutarti.
La tua vita finiva e io non vedevo l’ora che esalassi l’ultimo
respiro. Ero lì, in piedi, accanto a te, fra tutti quei monitor,
fili, tubi e chissà cos’altro. Mi sentivo vuoto, senza un
pensiero, volevo che tutto finisse al più presto e non provavo
dolore. Quasi speravo che tu non ti risvegliassi più e non per
risparmiarti altri patimenti, desideravo solo liberarmi da quel senso
di fastidio, da quel vuoto che soffocava il mio cuore.
Nello stesso tempo non potevo fare a meno di dirmi: “Ma che razza
di uomo sei? Non hai affetti? Sei capace di commuovermi per un cane, per
un gatto che soffrono e sono quasi indifferente per mio padre”.
Provavo imbarazzo, e soffrivo, ma più per me che per te.
Vorrei consolarmi pensando a come io, a differenza del mio fratellino,
negli ultimi tuoi anni ti ho assistito, ti ho seguito nel tuo malanno;
ma penso anche ai litigi, le urla, i silenzi e all’insofferenza
che spesso provavo per te, convinto com’ero che la malattia fosse
nella tua testa.
Già, nella tua testa, come quella notte, dormivo nella stanza accanto
alla tua, quando mi svegliai sgomento, con uno strano mormorio nella testa.
Erano i tuoi gemiti, .era la prima volta che ti sentivo lamentare per
il dolore. Fu agghiacciante! Rimasi paralizzato nel letto. Non muovevo
un muscolo, vigliaccamente speravo solo che il male ti passasse rapido,
o almeno che tu mi chiamassi per liberarmi da quello stato di torpore,
dal quel dolore al cuore stritolato dai tuoi lamenti. Ma non chiamasti
e i tuoi rantoli dopo qualche minuto si affievolirono lasciarono il posto
al silenzio che tornò ad avvolgermi in quella notte interminabile,
lasciandomi impotente, sempre più intriso di sensi di colpa.
Padre, sai, la mattina, anche quando potrei poltrire nel letto, mi devo
alzare, c’è sempre quella sensazione d’angoscia per
qualche cosa che non ho fatto, qualcuno che potrebbe rimproverarmi, qualcosa
di male al quale devo comunque rimediare o dal quale mi devo nascondere.
Sono stanco e non sopporto più di essere stanco e ti odio! Mi odio!
Non so.
Dicevi di essere buono, di pensare agli altri, di avere grandi ideali.
Sicuro, non eri cattivo, ma neanche tanto buono come pretendevi di essere.
Diciamo la verità, la tua bontà, il tuo idealismo servivano
a tranquillizzarti, a lenire il senso di inadeguatezza che spesso ottenebrava
il tuo spirito.
Eri abile, difficile da cogliere, così cangiante fra sicumera e
timidezza, arroganza e dolcezza. Certo, eri un esempio per me. Le tue
idee erano così affascinanti, sempre colme di razionalità,
con quella visione d’insieme degli accadimenti che ti rendeva capace
di cogliere la miseria, la grandezza, l’assurdo dell’uomo.
E i sogni che mi regalavi, celati nelle avventure che raccontavi, sempre
in bilico fra realtà e fantasia. Quante volte la jungla ho attraversato
con te inseguendo serpenti giganteschi, fiere terrifiche, e poi risalendo
lungo fiumi sconosciuti alla ricerca di città sepolte dal tempo.
Eppure ti odio per non avermi mai abbracciato, dato una carezza. Oh, il
tuo affetto lo dispensavi con le tue critiche, che certo attenzioni erano.
E furono proprio tante le attenzioni che mi riversasti addosso quando
sulla sella di una bici mi “lanciasti”, sperando di trovare
un campione, quel campione che forse tu saresti potuto diventare, se la
vita non ti avesse camminato zoppicando al fianco.
Oggi forse ti ringrazio, ancora sento il vento sferzarmi la faccia mentre
mi appoggiavo su quel cuscino d’aria al quale affidavo la mia vita
in quelle curve spericolate, scendendo e salendo per quelle strade dense
di emozioni, sofferenze, gioie, sfide e sconfitte.
Ma certo ti ho deluso, non sono diventato un fuoriclasse, anzi non ci
ho neanche veramente provato, ben presto sigarette, alcool e qualche donna
avevano sostituito i duri allenamenti e l’uomo che tu speravi di
forgiare ti sfuggiva via ingrato, o meglio, scappava da tuo amore, come
quel giorno, all’arrivo di quella tremenda salita, dove non ti accorgesti
neanche che le gocce che rigavano il mio volto, stravolto dalla fatica
e dalla delusione non erano sudore; ma tu, impietoso mi schernisti: “Figlio
mio, avessi avuto io le tue gambe, con la mia testa, che sfracelli che
avrei fatto!”.
Però eri intelligente, per quanto grande fosse stato il dolore
che ti avevo dato quando “scesi di sella”, eri preparato,
sapevi che era difficile, molto difficile creare un campione, dare forma
a un sogno.
Sì, eri intelligente, ma non forte, e come suona beffardo quel
tuo monito: “Attento Daniele, ogni uomo ha un punto di rottura e
se lo raggiunge non si rialza più”. E proprio tu padre, la
testa non rialzasti più!
Fu proprio duro il colpo che t’inflisse mia madre, quella che allora
era tua moglie. Non era stata molto clemente con te. Sì, lo so,
non vi eravate mai veramente amati, poi tu con le tua fredda razionalità
e con le tue vergogne mai sopite, ben poca facilità avevi nell’istaurare
un bel rapporto con una donna. Ma come mi sentii umiliato per te quel
giorno, che già vivevate sotto tetti diversi, dopo l’ennesimo
feroce litigio, quando ella sprezzante ti disse: “Sai perché
prima di andare via ti ho regalato il cane!?! Perché mi faceva
pena vederti solo, proprio come un cane”. Tu non reagisti più
e nel silenzio ti ritirasti, con quello sguardo perso nel nulla; chissà
quali fantasmi andavi rimirando nella tua mente?
E il fondo non lo avevi ancora toccato. Ti mettesti con quella donna,
come si chiamava? Ah, sì, Carla. Ti piaceva poco fisicamente e
si capiva, certo non c’era empatia fra voi, solo la sua forza ti
legava, il suo sesso t’imprigionava. Volevi lasciarla, eri insoddisfatto,
ma non ti decidevi e subivi e subivi fino a quando fu lei a lasciarti
e incredibile, reagisti come un folle.
Tu sempre misurato, attento, in grado di spiegare l’irrazionalità
degli uomini, incominciati ad urlarle frasi sconnesse, colme di rancore
e sono sicuro che se quel giorno, per una serie di circostanze fortuite
non mi fossi trovato lì anch’io, l’avresti picchiata.
Cos’era, la paura di restare solo? O il tempo che ti “rigettava”
sempre più indietro? Dio che vergogna.
Ti accompagnai a casa, non riuscivi a guidare, non parlavi, non avevi
il coraggio di guardarmi, non avevo il coraggio di guardarti. Ero terrorizzato,
tu eri completamente sconfitto, e in te vivevo la paura di fare la tua
fine, la tua angoscia era la mia angoscia, ed era un regalo che non volevo.
Incominciasti a bere. Fortunatamente non avevi la sbronza violenta, ma
spesso ti perdevi, qualche volta mi telefonavi e non avevi il coraggio
di parlarmi, ma io capivo e ti venivo a cercare, sapevo dove trovarti,
su quella panchina in riva al fiume; chissà forse confondevi i
racconti che mi facevi da bambino con la realtà. Ma io non sopportavo
vederti ridotto in quel modo, non sopportavo perdere tutto quel tempo
e caricarmi di altre angosce, così ti urlavo dietro e imprecavo
un qualche Dio sconosciuto. Tu e tu mi guardavi attonito, balbettavi qualche
scusa, ma articolavi male le parole, perdevi l’equilibrio, ti vergognavi
di te e piangevi piano. No, così era troppo, quanto ti ho odiato.
E infine ti ammalasti. All’inizio io e Andrea pensavamo che fossi
depresso, che avessi raggiunto quel fatidico punto di rottura. E forse
è proprio quando l’anima di un uomo si spezza, che anche
il cuore, quello di carne e sangue, si guasta e piano piano il suo ticchettio
spegne.
Strano, ora che non ci sei più, non riesco a sentire la tua morte
e come se tu continuassi a essere una parte della mia vita. E ancora ti
vedo riporre con cura gli i indumenti miei e di Andrea nei cassetti. Con
quanto amore li piegavi, con quanta melanconia solo e silenzioso, li ordinavi.
Già, quasi ogni giorno compivi quel tuo piccolo rito. Qualche volta
canticchiavi stonato e un sorriso ti piegava l’angolo della bocca.
Forse pensavi ai tuoi eroi, forse pensavi a me, o t’immaginavi grande
regista inventare storie fantastiche. Ma quella tua tristezza non ho mai
avuto il cuore d’indagare, avevo sempre fretta e quanto poco ti
ho parlato, quanto poco ti ho ascoltato.
Forse, quando trovai nel cestino della carta quella tua poesia, se avessi
avuto il coraggio di chiedertene ragione, un peso ti avrei tolto dall’anima,
un incubo mi sarei risparmiato. Ma non lo feci e così a volte la
recito silenzioso…
Figli miei
Voi siete
le mie gambe, le mie ali
Il vostro cuore è il mio cuore
Ancora mi vedo passeggiare
tenendovi per mano
ma già voi volate via
Figli miei
figli miei bellissimi
Padre ti odio per non avermi insegnato a non aver paura della solitudine,
e sempre un amore ho cercato.
Padre ti odio per questa consapevolezza che adesso non ho più tempo,
e il tempo ho voluto vivere a tutti i costi.
Padre ti odio per la confusione che faccio fra te e me, fra odio e amore.
Padre ti odio! O forse no …
11 gennaio 2018
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